L’impatto economico e sociale dell’Alzheimer

Il 24 febbraio 2016 è stato presentato lo studio L’impatto economico e sociale della malattia di Alzheimer: rifare il punto dopo 16 anni, frutto della collaborazione tra il CENSIS e l’AIMA – Associazione Italiana Malattia di Alzheimer.
La ricerca, come richiamato dal titolo, giunge dopo 16 anni dal primo studio realizzato (un secondo risale al 2006) e si propone di analizzare l’evoluzione delle condizioni di vita delle persone con Alzheimer e delle loro famiglie. Si tratta di un’indagine di carattere nazionale che ha coinvolto un campione di 425 caregiver.

Complessivamente, la ricerca mette in luce gli impatti sociali ed economici della malattia di Alzheimer sulle persone e sulle famiglie ed evidenzia i limiti del sistema pubblico di presa in carico. In generale, si rileva un minore ricorso ai servizi territoriali (l’assistenza domiciliare integrata e socio-assistenziale, i centri diurni, i ricoveri in ospedale o in strutture riabilitative e assistenziali). Mentre più ampio appare il ricorso al lavoro di cura privato, sebbene la percentuale di chi può contare su una badante risulti lievemente ridotta rispetto al passato (dal 40,9% del 2006 al 38,0% del 2015).
I costi del lavoro di cura privato ricadono principalmente sulle risorse della persona (per il 58,1%), ma a differenza che nel 2006 si evidenzia anche un più ampio ricorso, oltre che all’indennità di accompagnamento, al denaro dei figli o del coniuge. Aspetti che mettono in guardia rispetto ad un progressivo rischio di impoverimento delle famiglie.

Il caregiver rappresenta la figura centrale nell’assistenza della persona con Alzheimer. Il lavoro di cura lo impegna mediamente per 4,4 ore di assistenza diretta e per 10,8 ore di sorveglianza. Il supporto su cui il caregiver può contare proviene prevalentemente dai familiari (48,6%) e secondariamente da personale a pagamento (32,8%), mentre il 15,8% dichiara di non ricevere alcun aiuto nelle attività di cura.
La possibilità di ricorre ad una badante favorisce una riduzione delle ore giornaliere destinate dal caregiver all’assistenza e alla sorveglianza, e impatta quindi sulla sua disponibilità di tempo libero. Se in generale il 47,8% dei caregiver segnala un aumento del proprio tempo libero legato alla disponibilità di servizi e farmaci per l’Alzheimer, tra i rispondenti che possono contare solo sul supporto di una badante la percentuale cresce di oltre 20 punti percentuali (68,8%) e, ancor più, di circa 30 punti percentuali nel caso in cui alla badante si associno uno o più servizi (77,1%).

Il lavoro di cura impatta inevitabilmente sulla vita del caregiver: sull’accesso e la permanenza nel mercato del lavoro, sulla salute e sulla vita relazionale.
Ha affermato di aver avuto cambiamenti nella vita lavorativa il 59,1% dei caregiver attualmente occupati, si pensi ad esempio al ricorso al part-time che coinvolge soprattutto le donne, e il 18,7% di quelli attualmente non occupati, tra i quali il 21,4% ha dichiarato di aver perso il lavoro. Rispetto all’indagine del 2006, la percentuale dei disoccupati risulta triplicata (3,2% nel 2006 e 10,0% nel 2015) e più in generale si osserva un’elevata quota di caregiver in età lavorativa ma in condizione non professionale (40% circa).
L’attività di cura produce ricadute significative anche sullo stato di salute del caregiver, soprattutto se donna, incide sul maggiore ricorso ai farmaci, determina l’interruzione di attività extra-lavorative e impatta negativamente sulla vita relazionale.
Quanto al sistema pubblico dei servizi di assistenza per persone con Alzheimer, il 56,8% dei caregiver esprime giudizi negativi, percentuale che cresce tra i residenti nel Mezzogiorno (73,1%) e tra i caregiver che usufruiscono di servizi di assistenza e si occupano di malati gravi.

Infine lo studio si concentra sui costi diretti e indiretti dell’Alzheimer. I primi identificano le spese sostenute per l’acquisto di beni e servizi. I secondi hanno invece a che fare con la mancata valorizzazione del lavoro di cura e con la perdita di risorse legate, ad esempio, alla rinuncia all’occupazione.
La ricerca stima che i costi medi siano di 70.587 euro annui per persona con Alzheimer, di cui il 27% circa di costi diretti e il 73,2% di costi indiretti. Per un ammontare complessivo, a carico dei familiari, del SSN e della collettività, di oltre 42 miliardi di euro annui, se consideriamo che sono 600.000 le persone con Alzheimer in Italia.
Tra i costi diretti (pari ad oltre 11 miliardi di euro) la quota più significativa è rappresentata dai costi legati all’assistenza informale (60,1%), che è al 100% a carico delle famiglie, così come anche le modifiche dell’abitazione che rappresentano il 3,1% dei costi diretti. Le spese per l’accesso ai servizi socio-sanitari costituiscono, invece, il 19,1% dei costi diretti e sono articolate con quote più consistenti (70% e oltre) a carico del SSN per l’assistenza formale, l’ADI, i centri diurni e un carico equamente ripartito tra SSN e famiglie per i ricoveri in strutture socio-sanitarie e assistenziali come le RSA.
I costi indiretti rappresentano la quota più consistente del totale (73,2% pari a quasi 31 miliardi di euro) e sono stimati assegnando un valore monetario all’assistenza prestata dai caregiver, che rappresenta il 97% circa del totale dei costi indiretti, a cui si aggiunge anche la piccola quota rappresentata dai mancati redditi di lavoro delle persone con Alzheimer.

La ricerca mette in luce i costi sociali ed economici delle carenze del nostro sistema di welfare. Ed evidenzia come la centralità del ruolo della famiglia nello svolgimento del lavoro di cura produca impatti significativi, in termini di salute dei caregiver, di rinuncia o riduzione dell’occupazione, di mancata produzione di reddito e di rischio di impoverimento.

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